#8 La moda non è più un'isola felice
Il debutto della collezione di Phoebe Philo è stata l'ennesima dimostrazione di quanto la discussione online sul fashion sia diventata aggressiva e polarizzata
Come da copione, la notizia della settimana per il mondo della moda è stato l’attesissimo ritorno di Phoebe Philo e il debutto del suo brand omonimo. Non sorprende nemmeno constatare quanto la collezione sia bella, e a decretarlo non sono solo io, dichiaratamente fan, ma anche due delle giornaliste più autorevoli del settore: Cathy Horyn e Vanessa Friedman. Dunque tutto perfetto, no? L’esordio è andato alla grande, i capi sono andati sold out, tutti sono stati felici. E invece no, perché questo evento ha esemplificato al massimo l’atmosfera che si respira sempre di più nelle discussioni online sulla moda, in cui davanti a qualsiasi annuncio, look o sfilata si devono formare fazioni opposte e contrapposte, perennemente in guerra.
Il fashion è un settore che si basa su pareri soggettivi, in cui le categorie del bello e del brutto sono strettamente legate al gusto personale. Esistono però altri parametri di giudizio oggettivi: la rilevanza di una collezione, l’influenza sull’industria, l’originalità e la qualità dei capi, la commerciabilità e il successo economico. Caratteristiche che non mi sembra mancassero al primo drop di Phoebe Philo. Eppure su Instagram, Twitter e TikTok si è scatenata una discussione assordante proprio a causa del tono usato nei commenti. Si faceva a gara a trovare il difetto, la mancanza, una ragione valida per criticare, se non odiare, quel lavoro. Si è partiti con il casting, colpevolmente non diversificato in materia di etnie e corpi; si è proseguito con il range di taglie, anche qui non esteso; si è continuato con i prezzi, altissimi; si è concluso con l’attacco ad un’estetica giudicata ormai passata, mainstream, non particolarmente interessante.
Non starò qui a fare l’avvocato di Philo, ma qualche puntino sulle I vorrei metterlo. Se quel tipo di stile è diventato dominante è merito suo: lei l’ha portato in passerella, lei l’ha reso celebre, lei è in grado di interpretarlo al meglio. I prezzi sono perfettamente in linea con quelli del settore del lusso (controllare il sito di Bottega Veneta o Burberry per esserne sicuri). C’è chi ha avuto perfino da ridire sul fatto che il sold out registrato in pochi minuti fosse in qualche modo falsato, perché i capi disponibili non erano poi così tanti. Sarà anche vero, ma intanto quei cappotti da seimila sterline sono stati venduti. Sul casting si poteva senza dubbio fare qualche sforzo in più, per allinearsi ai tempi che corrono, anche se non escludo che in quel caso sarebbero arrivate accuse di inclusione performativa.
La sensazione generale è che in ogni caso motivi per criticare e odiare se ne trovino sempre. Sembra esserci uno scollamento totale, una distanza incolmabile, tra quello che è l’establishment della moda, con le sue maison più antiche e famose, e un’enorme fetta di pubblico, soprattutto Gen Z. In certi casi si avverte quasi un astio, una repulsione, un rifiuto verso una realtà ritenuta anacronistica, elitaria ed escludente. Ed è forse questa impossibilità d’accesso, quest’ingresso precluso ad accendere così tanto gli animi (in effetti quale ventenne ha quei soldi da spendere per una giacca?).
Questo non significa che la fashion industry, i suoi designer e i suoi CEO non abbiano le loro colpe, tutt’altro. La moda ha però sempre avuto anche un valore culturale, di confronto, dialogo e apprendimento. In altri casi ha rappresentato una forma di piacevole escapismo, totalmente cancellato da profili e commentatori online interessati solo a gettare benzina sul fuoco nel nome dell’engagement. Ma a cosa porta un discorso online sempre così aggressivo, scandito da toni accusatori, in cui non c’è mai una critica costruttiva, una riflessione interessante e condivisa, in cui apprezzare il lavoro di una designer bianca, donna e senz’altro privilegiata assume improvvisamente dei tratti problematici. In un’industria fatta di infinite sfumature, tutto diventa bianco o nero, e una volta scelta l’appartenenza ad una fazione è vietato cambiare idea.
“Non appena ho iniziato a dare un’occhiata agli abiti ho avuto l’impressione di vedere qualcosa di completamente nuovo, e soprattutto, che la moda avesse fatto un grande passo avanti. Era il tipo di movimento che la gente aspettava. E devo ammettere che le sue idee facevano sembrare il lavoro di alcuni suoi colleghi piuttosto artificioso” ha scritto Horyn a proposito della prima collezione di Phoebe Philo. Un settore che ritrova una designer del calibro e del talento di Philo dovrebbe rendere tutti, pubblico e addetti ai lavoro, contenti e orgogliosi, lasciando da parte inutili polemiche.
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50% Cecilia, 50% Andrea. Ho scritto per nss magazine, Harper's Bazaar Italia, Cosmopolitan e iODonna.it. Scrivo di moda anche in questa NL, tra approfondimenti, trend TikTok e ossessioni passeggere 💌