#6 Una maison è il suo direttore creativo?
Da Pierpaolo Piccioli a Demna, quando un designer diventa più famoso del brand per cui lavora
Nell’implacabile e costante susseguirsi di annunci di addii e arrivi al vertice delle maison di moda, questa settimana si è fatta largo una notizia di tutt’altro tenore. Nella settima puntata della terza stagione di The Morning Show, infatti, ha fatto la sua comparsa interpretando sé stesso Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino. Non solo ha recitato al fianco dell’amica Jennifer Aniston, ma ha anche rivisitato l’abito che aveva disegnato per lei in occasione dei Golden Globes del 2010, nella serie sfoggiato in versione 2.0.
Piccioli, che plasma l’universo estetico di Valentino dal 2016, su Instagram vanta un milione di follower e un profilo curato che alterna momenti di grande soddisfazione professionale, tra dietro le quinte e star internazionali, a scatti quotidiani con la famiglia e il cane. Spesso protagonista sul red carpet, Piccioli fa parte di quella schiera di direttori creativi diventati in un certo senso personaggi, non schivi e timidi, ma aperti ed estroversi, immagine immediata e riconoscibile del brand che rappresentano. E proprio qui sta il punto: Piccioli è il volto di una maison di cui è “solo” direttore creativo, di cui non è né founder né proprietario.
Niente di strano, l’industria della moda oggi funziona così, governata da grandi conglomerati del lusso e scandita da ricambi veloci e tendenze altrettanto passeggere. Forse animata da un’ansia verso il futuro che non affligge Kering o LVMH, io penso sempre al dopo. Cosa succederà quando Maria Grazia Chiuri lascerà Dior? Come sarà possibile una transizione organica da anni segnati da impegno “femminista” e liberazione del corpo femminile verso quello che il suo successore immaginerà? Che ne ne sarà di Balenciaga senza Demna, che ha plasmato la maison a sua immagine e somiglianza, che in passerella porta sé stesso, la sua storia, i suoi vestiti, suo marito (letteralmente).
Per i gruppi proprietari delle maison le strade sono due: pescare tra le folte fila di creativi competenti ma sconosciuti, spesso già all’interno brand, o puntare tutto su nomi forti, non sempre così capaci. Lo scorso anno WWD aveva tracciato il profilo ideale del direttore creativo di successo: una figura che vanti un grande seguito online, una folta rete di contatti e l’abilità di ispirare una community. Si tratta di caratteristiche proprie di designer giovani ed emergenti, già founder di brand con un’identità ben formata e un pubblico altrettanto identificabile - penso a Martine Rose e a Telfar Clemens. Nella famelica ricerca di personaggi in grado di accelerare le vendite, spesso i gruppi del lusso sembrano dimenticare che il passaggio non è immediato: un nuovo designer porta con sé un certo pubblico, ma molto dipende dalla sua destinazione finale, che potrebbe non essere in linea con il suo background e con i desideri (nonché con la disponibilità economica) dei suoi fedelissimi.
Nonostante la nomina di Pharrell Williams da Louis Vuitton (inevitabilmente dovuta alla rivoluzione portata avanti da Virgil Abloh), con il passare del tempo la tesi esposta da WWD ha mostrato le sue falle. Molti degli enfant prodige chiamati a risollevare le sorti di brand morenti non hanno saputo dimostrarsi all’altezza della situazione: da Rhuigi Villaseñor da Bally a Ludovic de Saint Sernin da Ann Demeulemeester. Ecco che allora la tendenza diventa scegliere creativi dal lungo curriculum, presentati al grande pubblico come nomi sconosciuti pronti a trasformare il destino di una maison. Tre su tutti: Matthieu Blazy da Bottega Veneta, Sabato De Sarno da Gucci, Simone Bellotti da Bally. Poi spetterà ai singoli decidere se presentarsi come star o rimanere nell’ombra, lasciando che sia il lavoro a parlare.
Il successo di un brand è il successo del suo direttore creativo. La difficoltà sta nel trovare un equilibrio efficace tra la storia della maison, la contemporaneità e la visione del singolo designer. Altrimenti il rischio è di dare vita a delle ere geologiche che non comunicano tra loro, ben distinte e identificabili a seconda del direttore creativo, per cui ad ogni dimissione dovrà seguire una ripartenza da zero. Con tutti i rischi che ne conseguono.
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Di fronte alla devastante situazione nella Striscia di Gaza e in Israele, l’industria dalla moda ha preferito tacere (o mettere a tacere), non prendendo posizione - con qualche illustre eccezione, come la famiglia Hadid, di origine palestinese. Samira Nasr, bravissima editor-in-chief di Harper’s Bazaar USA, è stata costretta a pubblicare un post di “scuse” dopo che aveva condiviso dei link a raccolte fondi per i bambini di Gaza. Su TikTok si vocifera che il suo lavoro potrebbe essere addirittura a rischio dopo questo “inciampo” - perché non sia mai che si dica qualcosa nemmeno contro Israele, ma in difesa dei diritti umani. È stata ancora più schietta e diretta Gabriella Karefa-Johnson, stylist di fama internazionale, nonché editor-at-large di Vogue, che in diverse Stories aveva condannato il genocidio palestinese da parte di Israele, paragonando le forze armate del paese guidato da Netanyahu a dei terroristi. Condé Nast, gruppo proprietario di Vogue, ha fatto sapere che le opinioni espresse dalla stylist non rispecchiano quelle dell’azienda, mentre Karefa-Johnson ha cancellato il suo impiego da Vogue dalla bio di Instagram
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Alla prossima settimana 👋🏻
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50% Cecilia, 50% Andrea. Ho scritto per nss magazine, Harper's Bazaar Italia, Cosmopolitan e iODonna.it. Scrivo di moda anche in questa NL, tra approfondimenti, trend TikTok e ossessioni passeggere 💌