#23 Sfilata, défilé o show?
Diverse scuole di pensiero sul fine ultimo di una sfilata. Da Saint Laurent a Miu Miu
Quanto dovrebbero essere indossabili i vestiti che sfilano in passerella? È la domanda che si pone la giornalista e autrice americana Amy Odell nella sua ultima newsletter, tracciando un bilancio a margine di questo Fashion Month.
Il quesito non è certo nuovo. Eppure, secondo molti critici e osservatori, queste ultime Settimane della Moda hanno rimesso al centro della discussione l’idea del vestire quotidiano. Matthieu Blazy da Bottega Veneta, ad esempio, ha parlato del concetto di “ricavare qualcosa di bello dalla quotidianità”. Da Gucci Sabato De Sarno, interrogato sul tema della collezione, ha dichiarato: “Il mio tema sono i vestiti”.
Ecco allora due scuole di pensiero, che molto hanno a che fare con l’heritage, la clientela e la disponibilità economica del brand. C’è chi non ha bisogno di molto (a parte una collezione ben realizzata, vedi Prada o Bottega Veneta appunto) per dare vita ad un défilé interessante e coinvolgente, senza dover ricorrere a location supersoniche, modelle d’eccezione e trovate votate alla viralità. C’è chi invece intende la sfilata nella sua accezione inglese, ‘show’, quindi come uno spettacolo imperniato su coreografie inaspettate, giochi di luci, casting sorprendente, mettendo consapevolmente in secondo piano i vestiti.
Non si tratta di giusto o sbagliato, ma di visioni differenti. Prendiamo Saint Laurent, ad esempio, che come sempre ha confezionato uno show super glamour, raffinatissimo e sensuale. Una collezione basata sulla trasparenza (e sui seni delle modelle). “Dimentichiamo la praticità di un abito-collant o la questione di chi vorrebbe indossarlo. In questa fase del XXI secolo, tanta trasparenza appare come la più banale forma di provocazione misogina mascherata da moda. Una provocazione particolarmente sbagliata se si considera l’attuale dibattito sul corpo delle donne. Sono già trattate come oggetti, abbiamo davvero bisogno di un’ulteriore oggettificazione?”, ha scritto Vanessa Friedman sul New York Times.
E ancora: “La trasgressione richiede più sfumature di un seno quasi nudo. […] Tutta quell’esposizione, che per lo più ha avuto l’effetto di rivelare quanto molte delle modelle fossero penosamente magre, ha rappresentato un’inversione di marcia in una turbolenta stagione della moda, in cui troppi stilisti si sono abbandonati al banale”.
Al polo opposto troviamo Undercover. Sulla colonna sonora narrata da Wim Wenders e intitolata Watching a Woman Working, hanno sfilato borse della spesa, buste di pane, mazzi di fiori. Un’immagine reale, realistica, eppure suggestiva della vita vera.
“Ogni mattina decido se essere una ragazzina di 15 anni o una signora prossima alla morte”, ha dichiarato Miuccia Prada. La sua ultima collezione per Miu Miu vantava un’impareggiabile relazione con il reale e il vestire quotidiano. Pigiami e ciabatte in pelle, cappotti doppiopetto e fili di perle, pellicce rubate all’armadio della nonna, anifibi e tubini neri: ecco la quotidianità milanese secondo la signora Miuccia.
Tenendo presente che solo una minima parte di ciò che sfila in passerella entra davvero in produzione, e che per la maggior parte dei brand i ricavi provengono dagli accessori - borse e scarpe in primis - e non dagli abiti, una sfilata può essere un riflesso della realtà, o un viaggio in un mondo immaginario.
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Alla prossima settimana 👋🏻
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50% Cecilia, 50% Andrea. Ho scritto per nss magazine, Harper's Bazaar Italia, Cosmopolitan e iODonna.it. Scrivo di moda anche in questa NL, tra approfondimenti, trend TikTok e ossessioni passeggere 💌