#1 Abbracci in passerella
La stretta tra Peter Do e la madre dopo il suo debutto da Helmut Lang ci ricorda che la moda è fatta di persone
Inaugurare una newsletter dedicata al mondo della moda nel pieno del Fashion Month impone di parlare, almeno in parte, di quello che accade in passerella. Degli show newyorchesi ciò che più mi ha colpito non è stato un abito o una borsa, bensì un momento. L’abbraccio tra Peter Do e sua madre.
Facciamo un passo indietro. Peter Do è uno stilista trentaduenne, riconoscibile grazie alla mascherina nera dietro cui è solito nascondersi e a quel tatuaggio che corre dalle dita alla spalla, come fosse una cucitura. Nato e cresciuto in Vietnam, a 14 anni arriva a Philadelphia con la famiglia. Studia al Fashion Institute of Technology di New York e nel 2014 si porta a casa la prima edizione del LVHM Graduate Prize. Dopo esperienze da Céline (quando ancora c’era l’accento e quindi Phoebe Philo) e Derek Lam, fonda nel 2018 il suo brand omonimo. Come un fulmine a ciel sereno Do rinvigorisce una New York Fashion Week orfana di grandi nomi e novità, diventando sinonimo di un’estetica rifinita e sofisticata, fatta di silhouette ampie e precise, minimaliste e sorprendenti.
A maggio di quest’anno arriva la nomina a direttore creativo di Helmut Lang, maison fondata dall’omonimo designer austriaco, ritiratosi a vita privata nel 2005. Quel brand un tempo epitome della coolness newyorchese, di uno stile genderless e sensuale in anticipo sui tempi, oggi appartiene al gruppo Fast Retailing che controlla, tra gli altri, anche Uniqlo. La missione è dunque chiara: trasformare un legacy brand - una realtà profondamente legata alla visione del suo fondatore, che nel frattempo se n’è andato, mentre il mondo (e la moda) sono cambiati - in un marchio globale, capace di parlare ad un pubblico variegato e trasversale (= vendere). Con la sua prima collezione alla guida di Helmut Lang, Do è riuscito nell’intento? Cathy Horny di The Cut pensa di no, Rachel Tashjian del Washington Post gli concede il beneficio del dubbio.
Oltre le attese, le critiche e i giudizi, rimane quell’abbraccio innaffiato di lacrime tra Peter Do e la madre (impossibile non commuoversi guardandolo). Perché nonostante profili altisonanti sul New York Times, appellativi come prodigio o genio, quell’attimo ci ha ricordato che la moda è fatta di persone, di essere umani, spesso travolti da situazioni e compiti ben più grandi di loro. Un momento di fragilità, o meglio, di umanità, in un’industria-tritacarne in cui a farla da padrone sono arrivismo e opportunismo, in cui contano solo ambizioni e obiettivi, e le emozioni sono da nascondere.
Seppur con le dovute differenze, quell’abbraccio mi ha ricordato tanto quello tra Virgil Abloh e Kanye West, al termine della prima sfilata di Abloh come direttore creativo di Louis Vuitton, nel giugno 2018. Lo stringersi tra due amici fraterni era il riconoscimento di uno stravolgimento, di una rivoluzione in atto nel mondo della moda. Due outsider che fino a qualche anno prima non avrebbero trovato posto in quel contesto - per via della loro provenienza, del colore della pelle, dell’ambiente a cui appartenevano e a cui si rivolgevano - hanno ribaltato tutto, prendendosi uno spazio che gli era stato a lungo precluso. Abloh la sua rivoluzione l’ha fatta, resta da scrivere il futuro di Do.
Nella sua ultima newsletter, Vanessa Friedman, Fashion Director e Chief Fashion Critic del NYT, ci ricorda che “the human side of this hoo-ha is what really matters. Something to remember as the circus rolls on.”
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Appuntamento a settimana prossima, nel delirio della Fashion Week di Milano 🌪️
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50% Cecilia, 50% Andrea. Ho scritto per nss magazine, Harper's Bazaar Italia e iODonna.it. Scrivo di moda anche in questa NL, tra approfondimenti, trend TikTok e ossessioni passeggere 💌